CONTRABBANDIERI FINE '800
 

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    Dal ricordo riaffiorano ardite figure che vivevano d'incredibili e misteriose abitudini. Esigevano l’incontrastato dominio dei valichi od agivano nell'ombra, dando peso all’inganno.
   

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PIERI DI TOCH - Il contrabbandiere più ardito della Carnia. Precedeva allo scoperto i portatori, superando i valichi vigilati con urla e fucilate. Sulla sua testa l'Austria aveva emesso una taglia.

   
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Collina: un villaggio ai piedi delle Alpi, che, al sopraggiungere, risponde col saluto che tutt'intorno spandono le cime.

Tra le case che s'incastrano all'orizzonte con le rupi, le nubi, il silenzio, aleggia la ragione del mio non primo viaggio nel passato delle genti che sfidarono la legge dei confini: i contrabbandieri.

Le genti di Collina sono pastori, boscaioli e donne fienatrici; ma il confine, molti anni a rovescio, non tardò a manifestarvi il desiderio di evadere e di violare per realizzare una condizione di vita migliore.

L’Austria ebbe sempre un richiamo per le genti di Carnia. L’oro in monete, realizzato dalla cessione delle merci al di qua delle Alpi, seminava negli animi un desiderio cieco ed irrefrenabile. Ma dietro ai lucidi marenghi che circolavano a fine '800, v'era il disagio ed il rischio e non sempre l'azione del contrabbando era felice, poiché l'insidia veniva costantemente alle calcagna degli avventurieri.

Non molto lungi da Collina vi è un passo: il Volaia, dove anche un tempo, sin dal medioevo, s'inerpicava una strada tra le pietre, la ghiaia e il poco verde di mughi che vi strisciano ai margini. Su quella strada solitaria dove le nubi roteanti e le plaghe di pascoli costituiscono un eterno paesaggio di quiete, si ripetevano, un tempo, i passi cauti od affrettati di Pieri di Toch, il contrabbandiere più ardito della Carnia, la guida alpina più bizzarra, l'inimitabile cacciatore di camosci. Due grandi passioni si fondevano nell'animo suo: un alpinismo primitivo, il desiderio dell'avventura e del rischio.

Questo suo spirito eccezionale e tumultuoso va ricercato nelle poche cose che il paesaggio gli offriva, ai tempi in cui le case di Collina erano ancora ricoperte di vetusta paglia ed erano fatte di bruna pietra, la stessa che, poco lungi, si sgretola dalle rocce.

Un uomo inquieto al lento sciogliersi delle grandi nevi che lasciavano i monti umidi e le lastre lucenti. La sua brama d'avventura era identica all'animarsi furioso delle nebbie che si raccolgono poco lungi sopra i filoni di roccia.

L'amore alle montagne era uguale all'improvviso slancio di passione e di nostalgia che quivi scaturisce all'avanzare precoce dell'autunno, quando i pascoli del Plumbs e del Moraret, i due monti che serrano la valle a levante, si coloriscono di pastello e le poche chiome dei larici si indorano su pei crinali sotto la cupola del cielo terso, perfetto, d'un celeste infinito.

Quando l'estate affluiva con le sue luci di smeraldo dentro alle umide conche e l'aria s'incrinava del profumo dei fieni rovesciati dalle falci, il richiamo dell'Austria balenava nella mente di Pieri di Toch: era uno slancio di passione irrefrenabile che superava ogni impegno. Abbandonava allora il raccolto dei fieni, imbracciava il fucile, mobilitava frettolosamente una squadra di robuste portatrici e s'incamminava, su, verso il valico, dove la nebbia e la pace ingoiavano il rumore dei passi.

Il contrabbando di Pieri di Toch era imperniato su basi spavalde e sincere: agiva preferibilmente l'estate ed in pieno giorno. Verso i valichi vigilati dalle guardie precedeva allo scoperto la colonna delle portatrici, accompagnandosi d'urla e di ripetute scariche di fucile: era un segnale di forza e d'incontrastato dominio. Gli spari d'intimidazione raggiunsero talvolta i finanzieri di schiena e le mantelline di spesso panno grigioverde raccolsero una parte dei pallini di piombo, cui la distanza, fortunatamente, smorzava la penetrazione.

Dietro agli spari il vuoto si faceva nel passo; la colonna valicava frettolosamente battendo il sentiero delle capre « troi das ciaras ». Dall'Austria, a quei tempi, s'importavano pile di zucchero e grandi dischi di tabacco da pipa.

Nelle improvvise decisioni di partenza, che rivelavano il maturarsi della fulminea passione, Pieri di Toch impersonava in certo senso lo stesso modo di agire di Dumas,
uno scrittore francese, che riandava difilato in istudio ad impugnare la penna ogniqualvolta un'idea interessante gli avesse attraversato la mente. Tra le grandi e vere passioni v'è sempre un rapporto e non è errato farne un raffronto anche se tra gli esseri vi sono ufficialmente enormi dislivelli sociali.

I finanzieri ed i gendarmi che vigilavano i valichi, non sempre erano comunque disposti a lasciar correre ed a farsi intimidire. Le fucilate non mancarono di rintronargli alle spalle. Tuttavia le pesanti palle di piombo, per incredibile astuzia del Toch, quasi sempre fischiavano a vuoto o finivano per le chiome dei larici, lacerando le spesse cortecce.

Nel corso delle fughe per erti ghiaioni e per difficili crinali, di fronte all'ostacolo di nude pareti, Pieri di Toch era giunto ad escogitare una stranissima soluzione. Scalzo, com'era sua abitudine camminare, si produceva di proposito delle ferite ai piedi per mezzo d'un coltello; iniziava quindi con facilità le scalate, poiché i piedi, col sangue in coagulazione, aderivano efficacemente alle lastre.

Per questa sua abilità di evasione ad ogni accerchiamento s'era sparsa nell'Austria una certa leggenda: Pieri di Toch era considerato l'inafferrabile della Valle Valentina, l'eroe del contrabbando. Probabilmente nel corso degli scontri e delle vertiginose fughe, qualche sua fucilata aveva ferito gravemente i gendarmi... Sulla sua testa l'Austria aveva emesso una taglia.

Ciò nonostante Pieri di Toch non interruppe le operazioni di contrabbando; anzi, quel genere di fama che gli giungeva all'orecchio, alimentava maggiormente in cuor suo la brama di pericolo.

Fu proprio allora che i gendarmi lo catturarono nella Valentina col sacco delle merci in ispalla ; né poteva difendersi essendo privo del fucile che aveva nascosto dentro uno spacco sulla rupe Volaia.

Nel condurlo verso il villaggio austriaco di Muda i gendarmi lo schernirono, gli sputarono in faccia e lo picchiarono. Ivi giunti lo spinsero qua e là per le osterie; bevvero avidamente in conto alla taglia.

Per nulla scoraggiato Pieri di Toch accettò in silenzio gli insulti e le botte, meditando in cuor suo la fuga e la vendetta. Seduto su una sedia, stanco, finse di addormentarsi. I gendarmi, considerandolo in istato di vile abbattimento, a maggior scherno, lo bardarono di sciabole e gli strinsero addosso i cinturoni delle loro uniformi.

L'opportunità della fuga non tardò a profilarsi. Colto un attimo di disattenzione Pieri di Toch fìnse nel sonno di girarsi sulla sedia, ciò allo scopo di controllare se i cinturoni lo stringessero allo schienale. Convinto che questi gli tenevano le sole braccia ed il corpo, fece d'improvviso un gran balzo e, rovesciando tavoli e sedie, infilò la porta d'uscita e si trovò di botto in istrada. Velocissimo si guadagnò i campi e le macchie vicine.

Nella fuga s'avvide di avere addosso ancora due sciabole coi rispettivi cinturoni; dietro di lui rintronarono alcuni spari nell'aria.

A lungo i gendarmi lo inseguirono, invocando di lasciar loro le sciabole per non ricevere una severa punizione. Pieri di Toch ne fu insensibile; volò su per la valle Valentina, superò il Volaia dove riprese il fucile e ridiscese a Collina, recando seco le sciabole, dove, tra l'elsa e la lama, brillava in similoro il noto motto dell’Imperatore austro-ungarico: «: Viribus Unitis ».

Crebbe con ciò la sua fama e la spavalderia. Successivamente arrestato e rinchiuso nelle carceri di Muda, riuscì di nuovo ad evadere saltando dalla finestra nel corso di un interrogatorio. Altre volte, disarmati i gendarmi, picchiò violentemente le loro armi contro le pietre rendendole così inutilizzabili.

Se catturato si dimostrava dapprima mansueto e pecorone, improvvisamente, poi, con dei violenti ceffoni, stendeva a terra i rivali. Aveva grosse mani e buoni muscoli, e, in onesto modo, possedendo una selvaggia agilità, riusciva a sottrarsi e guadagnare le macchie e le rupi.

Un segreto angolo della sua casa era stato adibito ai trofei del contrabbando: sciabole, fucili e cinturoni con aquile bicipiti. Gli stessi Austriaci, nella guerra '15-'18, per ripagarsi delle molte beffe, calarono a perquisirla dalle ridotte del Volaia, ma già ormai Pieri di Toch allora era morto.

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All'attività del contrabbando si alternavano le battute di caccia, che si svolgevano in maggior parte in territorio austriaco. Anche la caccia peccava perciò di contrabbando.

Conosceva a perfezione i reconditi pascoli dei camosci, dove, ancor di notte, saliva ad appolliarvisi all'attesa, ed era sua abitudine fasciarsi la testa con la camicia per confondersi ai colori della roccia.

Prestissimo, prima dell'alba, i camosci salivano dalle forre verso le rupi. Mentre si disegnavano nel cielo le prime filature di luce, già gli spari rintronavano per le cime. Erano colpi infallibili poiché generalmente, al ritorno dalle battute di caccia, Pieri di Toch recava a spalla un camoscio ed un secondo lo trascinava per le zampe sopra un sostegno di frasche. D'inverno, allineava buon numero di camosci abbattuti sul tetto, colmandoli d'uno strato di neve; ciò giovava, evidentemente, per una notevole conservazione.

Giunse talvolta a catturare dei camosci vivi, che, se feriti, gli riusciva di raggiungere percorrendo velocissimo e scalzo ripide scarpate e impervi viali; ed amava allevare nella sua stessa casa dei giovanissimi camosci catturati lungo le macchie.

Quei camosci, pazientemente addomesticati, vagavano poi liberamente per Collina scherzando allegramente coi monelli. Si ricorda come drizzassero il pelo contro i più cattivi; al contrario, sostavano volentieri all'uscio di gente amica e generosa di carezze.

Nella sua casa, oltre ai dodici suoi figli, accorrevano perciò al desinare anche i camosci e si faceva un tutt'uno intorno al tavolo. Pare inoltre, un bel giorno, che il biberone non bastasse a sufficienza per un camoscio di precoce cattura. La moglie del Toch stava allattando in un angolo l'ultimo figlio ed a risolvere il caso trovò spontaneo porgere la sua stessa mammella al camoscio che prese tosto avidamente a poppare. Pieri di Toch, ch'era rimasto bocconi a guardare, accondiscese all'insolito fatto, né lasciò perdere in seguito occasione per rievocare quel gaio avvenimento.

L'andata ed il ritorno per le ombre, l'omertà dei sentieri segreti che conducevano alle poste, non giovarono pur tuttavia a scalzare gli agguati.

Così accadde che finanzieri italiani lo sorprendessero, in stagione di divieto, di ritorno dall'Austria con due camosci in ispalla. Nella fuga fu costretto ad abbandonare un camoscio che i finanzieri raccolsero. Scesi a valle, questi, con gran boria, annunciarono allegramente agli abitanti di Collina in dialetto napoletano: « Pieri di Toch ha perduto u camoscia! ».

La moglie, ignara dell'accaduto, corse all'uscio temendo in cuor suo che al camoscio facesse seguito Pieri ammanettato. Questi invece, meditando qualche sua bricconeria, seguiva di nascosto la comitiva. Sgusciando per pascoli e boschi seguì per lungo tratto i finanzieri, che raggiunsero il villaggio di Sigilletto; quivi giunti sostarono giustamente, sentendosi al sicuro, si sgravarono del camoscio nell'atrio.

Il momento opportuno era venuto. Pieri di Toch scattò dalla macchia, calò veloce all'osteria e penetrò sommessamente nell'atrio ad agguantare il camoscio. Lo sollevò, se lo strinse alle spalle, zampe con zampe, e fuggì via come il vento. L'omertà si stese intorno alla sua fuga.

Quel rapimento rimase per buon tempo un mistero; più tardi, a svelarlo, fu proprio lo stesso Pieri di Toch.

Accadde inoltre, nel corso d'una battuta di caccia in zona di confine, che un amico del Toch avesse sconfinato in territorio austriaco. Quivi s'imbattè in un gendarme il quale, fermatolo, provvide immediatamente all'arresto.

Pieri di Toch aveva seguito dall'alto di una rupe la scena. Preoccupato per le sorti dell'amico fece tosto portavoce con le mani, gridando: « dotuar, cesaisi, chi lu fasc fuar... ! » — dottore, scansatevi. Lo faccio fuori... ! »

L'amico, che infatti era un medico, si prese a cuore di avvertire il gendarme.

Quest'ultimo, compreso che si trattava del Toch, si diede tosto velocemente
alla fuga.

 

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La caccia e le azioni di contrabbando avevano perfezionato in Pieri di Toch le qualità di alpinista; era considerato in Carnia, verso fine '800, una guida di fama.

Battezzò da solo, con mezzi inadeguati e primitivi, molte vie del gruppo del Coglians e sulle « Crette » circostanti.

Le imprese di contrabbando e di alpinismo gli giovarono economicamente ben poco. Morì di tifo nel '912 nell'umile casetta di Collina. Ad accompagnare le spoglie convennero contrabbandieri da tutte le valli; vi giunsero con le scarpe impolverate, l'abito di scuro velluto. Faceva caldo; le montagne salivano coi loro vertici plumbei nel cielo limpido e cobalteo. Sul Volaia, in quel giorno, il silenzio parve più grande.

   

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PITTOST, contrabbandiere delle nevi. Agiva d'astuzia e preferiva le bufere di neve che affievolivano il controllo dei valichi.
A dividerne i rischi veniva in suo ausilio la « Gendarma », una donna che vestiva da uomo.

   
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Abitava un villaggio ai piedi dei monti: Mieli, donde poco lungi una strada s'addentrava per boschi d'abeti a raggiungere i pascoli ed i valichi di confine.

Rivelava un'ossatura massiccia; una cupa barba gli spioveva a larghe ciocche dal volto. Un gran cappello di spesso feltro gli adombrava lo sguardo forte, gelido e penetrante. Dalle tasche della pesante giacca di velluto gli penzolava costantemente un fazzoletto color rosso scarlatto.

Contemporaneo di Pieri di Toch aveva impostato il contrabbando su opposte basi. Amava agire dando peso all'inganno; quel suo sguardo penetrante era fatto per l'ombra delle notti.

Precedeva i suoi piani con una vasta perlustrazione dei valichi per l'intero raggio delle Alpi carnicine. Accertato il punto di viabilità mobilitava una decina di portatrici e, a notte alta, partiva. Se d'inverno, oneste donne si fasciavano le gambe fino al ginocchio con grezzi panni di lana. Nessuno poteva mai conoscere l'itinerario di andata. Il ritorno avveniva generalmente per passo di Monte Croce, dove riusciva a sgusciare oltre il monte Pal Piccolo, indi scendeva a casera Val di Collina. Costeggiando i crinali sbucava poi nella gola di Tarondon. Oltre quest'ultima, prima del suo villaggio, venivano i boschi d'abeti e vi era modo, nell'ombra, di occultare le merci.

Talvolta, se preclusa la via di Monte Croce, saliva a nord della valle Valentina superando sullo sfondo una aguzza cima fasciata di verde: la Cresta Verde.

Oppure, poco lungi da questa, veniva per Passo Giramondo, scendendo poi per Valle Inferno. Questo cammino era assai più disagioso: ciò nonostante Pittost fu costretto molto spesso a praticarlo coi portatori, come, assai sovente, passò le notti sotto la rupe del Cacciatore, poiché più sopra, ad un tiro di schioppo, si scorgevano i gendarmi. Nel rievocare quel luogo Pittost amava dar peso alle circostanze della notte: «era caduto un buon ginocchio di neve e dormimmo ugualmente sotto la rupe Giramondo ».

Pittost (piuttosto), fu il soprannome affibbiategli per l'uso frequente di questo termine nei suoi discorsi e nella concezioni dei suoi piani.

La personalità di Pittost affonda nel mistero e le sue azioni generalmente s'inondano d'ombra. Il suo mondo era fatto di tenebra, di tormenta, di stelle e di sciabole da gendarme. Quest'apprensione continua determinò in lui il senso del presentimento, la credulità agli inganni e alle sciagure, la diffidenza totale dei suoi simili. Guai se camminando sui sentieri o sulle mulattiere dei monti il suo sguardo avesse incontrato casualmente due frasche messe in croce; si arrestava e vi girava al largo per un buon miglio.

Secondo lui le croci avevano sempre sconvolto i suoi piani. Nella vecchiaia queste divennero maggiormente il suo terrore.

Alcuni ragazzi, a dispetto, gliene incisero una proprio sulla porta di casa. Quel segno lo costrinse quotidianamente a ripeterci sopra una strana filastrocca d'invocazione e di scongiuri di sua genuina creazione.

Anche per Pittost le azioni di contrabbando non sempre finirono in bene: ebbe qualche arresto e molto spesso la sua casa e gli stavoli vennero buttati sossopra dai finanzieri.

Né il ritorno dall'Austria, col carico delle merci, giungeva sempre a buon porto. Nel corso d'un crudo inverno una violenta bufera di neve lo sorprese coi portatori in alta montagna, nella zona austriaca. Nell'andata era passato per monte Croce. I finanzieri, intravvistolo ad una certa distanza, gli gridarono dietro: « va pure! Ci rivedremo stanotte...! »

Manco a farlo apposta la bufera con l'enorme nevicata lo costrinsero a passare per monte Croce. A non molta distanza dalla baracca dei finanzieri la pattuglia sostò per decidere sul da farsi: se abbandonare il carico del tabacco o se proseguire.

Prevalse l'idea di Pittost: proseguire col carico per la via normale. « Lasciate fare a me» disse, « mi avvicinerò alla baracca e terrò chiusa la porta ; voi passerete in gran fretta! »

Avvicinatosi lentamente vi notò, spiando per la finestra, che i finanzieri giocavano tranquillamente a carte. Nessuno, certo, con quel tempaccio da lupi, avrebbe mai sospettato che si potesse valicare.

Pittost infilò nel chiavistello il suo nodoso bastone e lo girò contro lo stipite. L'urlo della tormenta soffoco ogni rumore. La colonna dei portatori valicò frettolosamente: le loro sagome goffe scomparvero nell'ombra.

Pittost levò tosto il bastone dal chiavistello. I finanzieri lo udirono ed apersero dicendo: « be', dove andate a quest'ora, malandrino ? ! E dove sono i vostri amici?»
« Sono rimasti al dilà » — disse Pittost. « Con questo tempo non c'è niente da fare! Cercheranno del lavoro nell'Austria ». Soggiunse, ed era questa una sua solita scusa.

La tormenta, frattanto, aveva colmato velocemente le orme dei portatori ed i finanzieri in certo modo gli credettero. Pittost se ne andò soddisfatto ridendo in cuor suo dell'inganno; a pochi metri, stringendo il randello, scomparve a grandi balzi nel buio.

Lungo i valichi, in pieno inverno, Pittost ricordava come sovente si fosse imbattuto in grandi branchi di camosci che muovevano sul versante carnico. Spiegava inoltre come questi, talvolta, venissero in fila indiana, sostituendosi a turno per il fendimento della crosta nevosa.

Nelle operazioni di contrabbando Pittost era giunto ad escogitare un inganno costante. Si era fatto forgiare da un amico un paio di stivaloni a suola rovesciata che lasciavano sulla neve false impronte; ne si seppe se una simile trovata fosse frutto genuino della sua bricconeria o se invece qualcun altro, già prima, con simile trucco avesse colto successi. Era evidente infatti come sui valichi, le guardie, notando le tracce, sapessero se i contrabbandieri si trovassero al di qua o al di là del confine. La falsità delle orme sconvolgeva le trame e Pittost rifaceva tranquillo i suoi valichi. Chi rinveniva i suoi passi conveniva che un contrabbandiere aveva violato da poco il confine, diretto nell’Austria. Al contrario, aggirate le vette, questi fendeva le nevi verso la sua valle.

   
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Sua fedelissima amica nelle imprese di contrabbando veniva la « gendarma », una donna che vestiva da uomo, alta e robusta, dal volto lungo e severo.

Abitava in un villaggio poco discosto da quello di Pittost, adombrato da una gran macchia di bosco denso d'abeti. La vecchia guerra '15-'18, vide passare di là i pesanti pezzi d'artiglieria da 149, che, più tardi, nel corso della temporanea ritirata, vennero rovesciati lungo i crinali.

La « gendarma » pensò successivamente di realizzare da sola i guadagni del contrabbando. S'avvide che la sua prestanza era degna di primo piano: poteva fare da guida, trattare gli affari, vincere le nevi e la tormenta.

Sciolse i legami con Pittost: fu un commiato di poche chiacchiere. S' avventurò da sola, più volte, attraverso i monti e per le nevi, dormì sotto le rupi. I marenghi non tardarono a rincuorare più efficacemente i suoi rischi, ma non per molto. Valicava generalmente per monte Croce, occultandosi attraversa la via segreta del Pal Piccolo.

Quivi, una triste notte, le guardie le tesero un agguato. Dovette arrendersi ai fucili spianati. Discese ammanettata lungo le valli di Carnia; era vestita da uomo: un cappellaccio in testa, lo sguardo aggrottato.

Dopo qualche tempo anche Pittost seguì la gendarma, ma fu quest'ultima a pagare per tutti: scontò infatti quattro lunghi anni di carcere. Al ritorno fece vita solitària: sfuggiva l'abitato, passando giorni interi nei boschi, dove, come un robusto boscaiolo, abbatteva le piante, le sezionava, ne accatastava la legna.

 
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Fra i contrabbandieri fu Pittost ad accumulare una certa ricchezza. Dallo smercio dei tabacchi non accettava che oro in marenghi che soleva nascondere sotto le pietre del focolare o in certi ' ceppi di faggio, occultati in cantina, dove la sua robusta mano apriva con la trivella un grosso foro, calandovi, uno ad uno, i dischi lucenti.
Quell'oro gli dette alla testa. S'invaghì di una giovane donna che, come parve, lo corrispose in amore. Le piaceva la sua forza, lo sguardo agghiacciante, i marenghi d'oro. Una relazione segreta, fatta anch'essa di ombre e di incontri al lume delle stelle si addiceva alla personalità di Pittost. Quell'amore gli profuse nuovo slancio: intraprese nuove avventure.

La moglie, avvertito il tradimento, pensò dapprima di sopportare, sperando nel rimedio del tempo. Ma accadde proprio allora ch'essa gettasse improvvisamente sul fuoco uno dei ceppi che contenevano i marenghi. Pittost giunse a ritirarlo rovente dal braciere. Ne scaturì un violento diverbio. Nella notte la moglie fu costretta a fuggire tirando seco i figli. Pittost ne approfittò per portar seco l’amante.

Quando i marenghi furono ritirati Pittost ne aveva ancora parecchi. Vi fu frequente occasione di porli in commercio. Tolti dai ceppi ne porgeva una ciotola colma, li rimuoveva con le sue ruvide dita e vi rideva sopra, in silenzio, di un riso gelido e geloso.

Coi marenghi riuscì a comprarsi un gran podere: « Cordea », che più tardi, per l’inattività, dovette cedere nuovamente per pochi soldi.

Nella vecchiaia amava sostare lunghe ore sui selciati dove il sole gli riscaldava le ossa. Il suo sguardo, da quell'immobilità, si sprofondava sui monti a rivangare i ricordi della forte giovinezza.

Nella morte Pittost portò seco il segreto di un tesoro nascosto in una gola attigua al suo villaggio, dove scroscia il torrente Vaglina. Si dice infatti che in quell'impervia gola, dove i rovi e gli spini coprono le rupi e la ghiaia, vi sia ancora nascosta una certa parte dell'oro in marenghi residuatagli dal contrabbando. Invecchiando aveva voluto serbare, a suo conforto spirituale, un buon gruzzolo di marenghi affidandoli all'ombra, alla terra, agli antri, dove solamente il suo sguardo avrebbe risaputo rinvenirli e rivivere brevemente uno spiraglio di lusinga e di passione.

E’ vero infatti che spesso egli accedesse lungo quel rio, sgusciando a lenti passi sull’umida terra. Le forze gli ritornavano sempre per riandare verso l’ombra dei boschi. L’ultimo viaggio, ugualmente lento, lo fece il pensiero, allorché la morte lo colse sul vetusto giaciglio, mentre dalle ceneri che si spegnevano accanto gli venne l'ultimo parco profumo di resina e di foresta.

Nessuno gli era accanto. Quel vuoto lo accecò. Gli occhi mossero intorno l'ultimo sguardo agghiacciante. Non più sussurri, non croci di frasche: solo silenzio.

Pittost si accasciò sulle grevi assi di rovere. Un'ombra triste e solitaria, che con la morte era venuta, prese a stagnarvi intorno.

   
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Il contrabbando si propagò ancora per buon tempo nel '900. Fu di quel tempo il contrabbandiere Fiorello, montanaro della valle di Lauco, che sostenne aspre risse, corpo a corpo, coi gendarmi. Gli rimasero addosso delle profonde cicatrici prodotte dalle sciabole e dai randelli.

Ricercato visse per giorni fuggiasco sui monti in pieno inverno, dove trovò riparo nelle malghe sepolte dalle nevi.

Fiorello era inoltre abilissimo cacciatore. Abbattuti i camosci ed i caprioli si piegava su di loro e ne beveva il sangue ancor caldo.

Gli albori della guerra '15 -'18 spensero decisamente il contrabbando.

Sui sentieri dove di notte e di giorno transitavano le guardinghe figure dei contrabbandieri, apparvero con la guerra interminabili colonne di soldati che salirono ad occupare le ridotte del Pal Piccolo, del Pal Grande, del Volaia, del Crostis e della Cresta Verde. I boati delle artiglierie irruppero nel gran silenzio dei monti; la luna, per lunghi anni, distese sugli elmi il suo ondeggiante luccichio.

Il clamore del contrabbando diradò dal suo campo di azione. Dalla lontananza riaffiora vagamente qualche scialbo ricordo: uno squarcio improvviso s'apre allora sulla omertà del passato.

 
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